Prima di redigere questo paragrafo sull’articolo di Giulietto Chiesa comparso qualche giorno addietro su Megachip, ho avvertito la curiosità di leggere quali fossero le linee editoriali del sito web; nell’era digitale, è lecito chiedersi in base a quali criteri vengano approvati e pubblicati i contenuti, giusto? Ebbene, in nessun angolo di Megachip è possibile trovare qualcosa del genere, ed è un’ingenuità non da poco per una testata il cui direttore ha 50 anni di giornalismo professionistico alle spalle. Questo dato riporta indirettamente ad una serie di problemi che emergono dalla sensazionale invettiva di Chiesa contro Grand Theft Auto V, a partire dal dato anagrafico: l’autore ha superato da un pezzo i 70 anni, e la violenza con cui attacca l’argomento è tipica di chi, dall’alto della propria età e formazione (non solo scolastica ma anche politica: parliamo di un attivissimo militante di sinistra), pretende di poter discutere e criticare un fenomeno basandosi su conoscenze che non ha.
Non vi è passaggio nel suo articolo da cui si evinca uno sforzo informativo volto a capire da dove si originano lo stile generale di Grand Theft Auto, il suo sottotesto satirico, la destinazione di pubblico. Si tratta soltanto di critiche frammentarie, allineate con l’astuzia propria del giornalista d’esperienza allo scopo dello scandalo; viene da chiedersi quale possa essere il suo interesse, a parte quello di proporsi come profeta della salvezza di fronte ad una minaccia di corruzione morale che in GTA V (e non nella realtà di tutti i giorni) trova al contempo la sua cifra ed il più subdolo Cavallo di Troia. Se si voleva mettere in guardia una generazione di genitori disattenta, magari pronta a far trovare sotto l’albero di Natale una copia del titolo Rockstar ai propri figlioletti, il messaggio è crollato sotto il peso di una violenza verbale fine a sé stessa - paradossalmente all’altezza dell’anticultura che Chiesa vorrebbe denunciare.
Siamo di fronte al caso del soldato che pur di avere la meglio su un avversario sleale, finisce per emularne i metodi: in uno tra i pochi passaggi razionali del suo scritto, Chiesa afferma che ai ragazzini e agli adulti di oggi mancano gli strumenti intellettuali per filtrare la violenza simulata e non lasciarsi permeare da essa, un’idea senz’altro condivisibile. Non si chiede però per quale motivo questi strumenti mancano, né offre alcun suggerimento utile ad una loro integrazione negli ambiti della famiglia e della scuola, ossia le due principali istituzioni a cui fa capo la formazione psichica di un individuo. Probabilmente, Chiesa si reputa esente dal dover rispondere a tali domande perché il suo mestiere è quello del giornalista e non del maestro, ma ciò lo autorizza forse a sfruttare la stessa debolezza intellettuale del pubblico per inculcarvi subdolamente un allarme dall’aria strumentale? Quali sono i suoi veri intenti, signor Chiesa?
Rifletto intensamente sull’intera questione, e non posso fare a meno di domandarmi se anche qui, in luoghi come Inside the Game, sia davvero il caso di offrire alla questione un’ulteriore cassa di risonanza. Dietro le maschere dell’autorevolezza e della salvaguardia morale, l’articolo di Chiesa mette a nudo una versione tutta italiana del giornalismo in cui supponenza, torbidi interessi personali e politici diventano un tutt’uno. Dovremmo forse stupirci di fronte all’aggravante della volgarità, quasi non sapessimo sino a che punto si è spinto il degrado morale del nostro paese? Rifiuto l’offerta e vado avanti.