Monday 5 March 2012

Recensendo Dear Esther

Riporto sul mio blog personale una recensione creata per Inside the Game che ho scritto di getto, subito dopo aver terminato la mia prima partita con Dear Esther su PC. Il mondo dello sviluppo indipendente è qualcosa di veramente straordinario, soprattutto in quanto dimostrazione del fatto che solo in un ambiente privo di rischi il videogioco può esprimere autenticamente il suo potenziale. Non mi riferisco tanto al rischio commerciale, che essendo parte di un business restringe in modo sensibile lo spettro di ciò che uno sviluppatore può proporre, quanto piuttosto a quello comunicativo. Dear Esther pone la comunicazione al centro della propria esistenza, e per questa ragione sovverte gli equilibri tra gli elementi che di solito associamo al videogioco, oppure da loro un significato differente. Abbiamo un unico elemento meccanico che è quello del camminare, associato al vedere ed all'ascoltare, assolutamente indispensabili per cogliere un mondo ricchissimo di affascinanti sottintesi: non è il primo caso in cui semplificare l'interazione contribuisce a dare maggiore impatto ad un'esperienza interattiva - esempi di ciò attraversano tutti i canali di distribuzione indie per PC e console - ma qui il sacrificio è decisamente più estremo. Sarebbe più corretto descrivere Dear Esther come un'esperienza che nasce usando gli strumenti del videogioco, ma che tale alla fine non è, e probabilmente non vuol nemmeno essere. Si tratta di un racconto avvolgente e criptico, perfettamente calibrato nella sua durata e foriero di un messaggio splendido che purtroppo, gran parte delle recensioni mainstream non è riuscito ad evidenziare per bene. A voi, Dear Esther.
   

Per capire in quali termini si parla comunemente dei videogiochi, basta dare un’occhiata al nostro blog come a qualsiasi altro medium dedicato all’argomento… Ed è impossibile non denotare una certa uniformità. Sensi di déjà-vu si accavallano l’uno sull’altro come mattoni per le ragioni più varie, formando un muro tanto alto quanto uguale a sé stesso, e può capitare che ad un certo punto, su quel muro ci si stanchi di arrampicarsi. Non che la scalata non procuri certi occasionali brividi, ma può essere questa una ragione sufficiente per mantenersi videogiocatori appassionati e a lungo termine? Un po’ si, ed un po’ no. Perché vedete, in rare occasioni capita che ti piombi addosso un titolo come Dear Esther, ed è come se il muro infinito di pocanzi si rovesciasse all’improvviso, scorticandosi alla maniera di Silent Hill e mostrando un lato di sé del tutto nuovo.
Il che conduce alla domanda topica, ossia “cos’è Dear Esther“? È un viaggio surreale in soggettiva che sembra voler rispondere ad un’altra domanda, ossia “cosa ne è del nostro vivere quando si deposita nell’inconscio, in un mondo interiore che non sappiamo di avere ma che costruiamo esperienza dopo esperienza?”. Per quanto possa sembrare assurdo che un quesito del genere si insinui nell’ambito del videogioco, Dear Esther sfrutta abilmente le caratteristiche del medium e ne offre un’interpretazione affascinante tanto dal punto di vista metodologico quanto da quello del pensiero, della riflessione. L’inconscio in cui si svolge la vicenda somiglia ad un’isola del Nord Europa, deserta e punteggiata da rari segni di civilizzazione: è un luogo ove la natura domina incontrastata, ma da cui emergono simboli e frasi incisi o pitturati in modi insondabili, persino nei più profondi recessi sotterranei.

In Dear Esther è impossibile correre, saltare o impadronirsi di oggetti che attribuiscano all’utente un qualsiasi potere o abilità fattuale. C’è semplicemente da esplorare e raggiungere punti di interesse presso cui una voce fuori campo (che dovrebbe essere quella del protagonista, ma questo è solo il primo tra i tanti dati opinabili del gioco) svela i suoi pensieri, producendosi in riflessioni al limite tra il poetico ed il surreale. È piuttosto difficile rintracciare un nesso tra indizi vocali e simboli, innanzitutto perché l’ordine in cui li si incontra cambia ad ogni nuova partita, e secondariamente perché il loro legame risiede interamente nel messaggio che conclude l’avventura. Che tale messaggio costituisca il finale unico di Dear Esther è tutto fuorché un difetto. Al contrario, la brevità dell’esperienza (circa 2 ore) vi indurrà a ripeterla più volte per scoprire quali nuovi e imprevedibili indizi vi condurranno a quell’esito, comprendendo sempre meglio il puzzle narrativo approntato dagli autori.

Infine, sarebbe impossibile parlare di Dear Esther trascurando il potentissimo incentivo costituito dall’isola stessa: è un luogo la cui bellezza selvaggia abbraccia ed inquieta allo stesso tempo, abbinando la cura scenografica dei titoli Irrational ad una progettazione sonora degna dei migliori prodotti DICE (splendidi i brani atmosferici di Jessica Curry). Raramente capita di avvertire la sensazione di essere osservati dai luoghi virtuali che visitiamo, come raramente accade di imbarcarsi in un’esperienza che mette in discussione la propria sensibilità, la propria disposizione a capire che ciò che si guarda senza comprendere, in fondo, è soltanto il riflesso di sé stessi. Cupo, introspettivo e misterioso, Dear Esther si racconta in un linguaggio personalissimo che lo colloca aldilà del videogioco, del cinema o della letteratura. Chissà se thechineseroom mirava davvero a far parlare del suo prodotto in questi termini.

Ah, un’ultima cosa… Occhio ai fantasmi!

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