Se c'è qualcosa che Gone Home mi ha svelato, confermando peraltro una mia impressione di vecchia data, è che il videogioco ha disperatamente bisogno di esprimere il suo lato "femminile". Così mi piace definire il tipo di esperienze che vengono fuori quando al giocatore si nega il diritto all'azione, quel diritto la cui urgenza ha plasmato nel bene e nel male la forma odierna del videogame di massa. Si tratta in effetti di rovesciarne la prospettiva: alla nostra agenda presso il mondo di gioco si sostituisce l'agenda di quest'ultimo nei nostri confronti, e l'agenda di Gone Home è quella di raccontarci delle storie concedendoci soltanto il "potere" dell'osservazione. Cosa è successo alla famiglia di Katie Greenbriar? Perché nessuno la accoglie al ritorno dal suo lungo viaggio studio nella lontana Europa? Tutte le risposte sono disseminate tra le stanze della magione di Arbor Hill, e attendono soltanto di essere scovate.
Per quanto il giocatore veda la vicenda attraverso gli occhi di Katie, i veri protagonisti di Gone Home sono i suoi cari, ossia i genitori, la sorella minore Samantha ed il misterioso prozio da cui i Greenbriar hanno ereditato la sontuosa abitazione; sono tutti individui che non compaiono mai a schermo, fatta eccezione per qualche foto sparsa in giro, e sui quali Fullbright Company ha svolto un portentoso lavoro di caratterizzazione in absentia. Innanzitutto, come avviene in qualsiasi altra casa, Arbor Hill è chiaramente divisa in zone vissute da un particolare familiare di Katie: sono i luoghi da cui è opportuno iniziare a cercare indizi sulla loro scomparsa. Con l'accumularsi degli oggetti e delle note, diventa presto possibile stabilire un filo logico che non si limita a delineare sequele di eventi, ma svela soprattutto i pensieri e le dinamiche psicologiche che li hanno causati. Per quanto si possa decidere di investigare su un solo congiunto alla volta, alcune tracce sono volutamente sovrapposte per esplicitare i rapporti familiari in casa Greenbriar.
La stimolazione della curiosità è il fondamentale pilastro su cui si regge Gone Home. È incredibile quanto di personale ogni giocatore possa ritrovarvi, anche solo limitandosi alla superficie: tutti i film anni '90 che riconoscerete tra le videocassette sparse in casa, le copertine dedicate a personaggi famosi, le cartucce per Super Nintendo, i riferimenti a Street Fighter, sono ganci distribuiti regolarmente dall'inizio alla fine dell'avventura. Ma intorno ad esso gli autori sviluppano problematiche che ognuno di noi potrebbe tranquillamente aver vissuto in casa propria: rapporti difficili tra i genitori, il desiderio di libertà e trasgressione che accompagna l'adolescenza, primi amori e persino segreti inconfessabili lasciati alla deduzione dei giocatori più attenti (potreste scoprire un tema veramente terribile celato tra le pieghe del passato). È un intrigo astuto nel quale si resta piacevolmente invischiati, finendo per conoscerne gli attori molto più di quanto si possa immaginare.
Dover dare un punteggio a Gone Home, specialmente quando l'esperienza è ancora così "calda" e presente nella memoria, non è facile. Non lo è perché in fondo qualche difettuccio esiste: indizi che avrebbero dovuto essere ben nascosti si trovano stranamente alla luce del sole, e per dare una sequenzialità di massima all'esperienza, i programmatori hanno celato oggetti essenziali dietro enigmi del tipo "trova la combinazione"; per fortuna, accade solo in un paio di occasioni ed in circostanze tutto sommato plausibili, senza grosse ricadute sul coinvolgimento. Gone Home si rivela superbo nell'intrecciare fatti, citazioni ed allusioni; sta solo al giocatore accontentarsi di ciò che riesce a scoprire, oppure esumare caparbiamente ogni segreto. Ed ha coraggio. Sacrificando le possibilità di azione del giocatore, lo si è premiato con un mondo traboccante di racconto dove ogni oggetto ha una storia ed un senso. Un mondo in cui l'idea stessa di avventura scopre un nuovo orizzonte - il suo yin.
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Sunday, 25 August 2013
Sunday, 5 May 2013
Recensione - Kentucky Route Zero Act 1
Quando nel cinema o nella letteratura si vuol narrare qualcosa di magico, qualcosa che allontani dalla frenesia del quotidiano recuperando una dimensione di vita più calda, accogliente ed al tempo stesso misteriosa, spesso lo si ambienta in località del Sud. Non è tanto una convenzione, quanto piuttosto uno stato d’animo: l’indicazione geografica assume infatti un significato simbolico che ha a che fare con la fuga dalla realtà, o comunque con una sua visione nella quale entrano in gioco elementi esotici e surreali. Non a caso la corrente letteraria del realismo magico ha la sua cifra nell’opera del colombiano Gabriel Garcia Marquez, e per quanto in questa sede si voglia descrivere qualcosa di infinitamente più piccolo dal punto di vista culturale, contestualizzare il discorso era necessario a porvi nel giusto atteggiamento mentale.
Definendo “piccolo” Kentucky Route Zero non lo si vuol certo privare dei suoi meriti: il titolo ha ottenuto un meritatissimo premio di Eccellenza per le Arti Visuali all’ultimo Independent Games Festival, ed intuire la ragione è banale nel momento stesso in cui le immagini del titolo cominciano a scorrere (o più propriamente ad emergere) sul monitor. Il duo di artisti che compone Cardboard Computer LLC. ha optato per un look vettoriale alla Another World, dove forme e colori prevalgono sul dettaglio intrinseco servendo all’osservatore un suggestivo invito all’immaginazione. L’uso di Unity, ossia di un ambiente di sviluppo essenzialmente tridimensionale, ha consentito di articolare le scenografie in piani di profondità che emergono da una colorata foschia di fondo allorché il protagonista si muove verso l’interno o l’esterno. Alcuni piani ed oggetti diventano invisibili in presenza di luci artificiali, suggerendo l’idea che per progredire in Kentucky Route Zero sia necessario spogliarsi delle proprie certezze – o più prosaicamente, sfruttare un pizzico di pensiero laterale.
Con poche e semplici soluzioni estetiche, Cardboard Computer ha ricostruito splendidamente la percezione del mondo legata ad un genere letterario, cosa di cui pochi titoli al giorno d’oggi possono vantarsi. Lo stesso gameplay è un distillato del modello punta e clicca che si limita a far muovere il personaggio la dove indica il puntatore del mouse, ed a scarne interazioni ambientali che riguardano perlopiù l’attivazione di meccanismi. L’unico controllo utilizzabile a piacimento consiste nello spegnere o accendere una torcia elettrica.
Parlando di trama e progressione, Kentucky Route Zero racconta la storia del fattorino di mezza età Conway, incaricato di effettuare una consegna presso una contrada del Kentucky chiamata appunto Route Zero. Sfortunatamente il luogo non compare in alcuna mappa, per cui Conway è costretto a spostarsi lungo l’arteria principale dello stato americano, la vecchia Route 66 (un semplicissimo reticolo di linee bianche su sfondo nero), seguendo le criptiche indicazioni dei personaggi che incontra. Il piano della realtà si interseca con quello dell’illusione sin dai primi minuti: Conway affronta conversazioni su argomenti che non conosce, asseconda richieste apparentemente bizzarre, visita luoghi e vede cose che altri non vedono. L’unico modo in cui il giocatore può tentare di fare ordine in ciò che gli accade consiste nel reiterare i dialoghi – peraltro privi di opzioni giuste o sbagliate – ma senza mai aspettarsi di ricevere risposte chiare. Kentucky Route Zero si dipana per misteriose sottotrame che contribuiscono a spingere Conway verso la sua prossima meta, ma di per sé non hanno una risoluzione esplicita.
Si astengano dunque i dottori della narrazione, coloro i quali di fronte ad un binario spezzato della trama soccombono ad un insostenibile horror vacui, anziché lasciarsi avviluppare dal mistero. Perché proprio questa sembra la chiave di lettura di Kentucky Route Zero – un titolo privo di sfida e di complicazioni, ma pregno di un’atmosfera tanto insondabile quanto indiscutibilmente magnetica. Siete di fronte ad un televisore mal sintonizzato, ed armeggiate con l’antenna nel tentativo di cogliere dietro al rumore video le immagini di quel programma che tanto vi interessa. All’improvviso, l’ingresso cavernoso della Route Zero compare proprio dinnanzi a voi, e capire ciò che è successo prima non ha più importanza: sapete soltanto di dover proseguire il vostro viaggio verso la verità.
Kentucky Route Zero è pubblicato in maniera indipendente sul sito web di Cardboard Computer e su Steam. Il gioco si articola in 5 atti (quella recensito è ovviamente il primo) e lo si può acquistare per 18€ su PC Windows, Mac OS X e Linux; gli atti successivi, ancora inediti, verranno recapitati automaticamente nel giorno d’uscita. Preordinando dal sito degli autori è offerta in regalo la colonna sonora in formato mp3, il tutto senza DRM. Volete capire se il genere fa per voi? Scaricate gratuitamente il breve spin-off ‘Limits and Demostrations’.
Monday, 5 March 2012
Recensendo Dear Esther
Riporto sul mio blog personale una recensione creata per Inside the Game che ho scritto di getto, subito dopo aver terminato la mia prima partita con Dear Esther su PC. Il mondo dello sviluppo indipendente è qualcosa di veramente straordinario, soprattutto in quanto dimostrazione del fatto che solo in un ambiente privo di rischi il videogioco può esprimere autenticamente il suo potenziale. Non mi riferisco tanto al rischio commerciale, che essendo parte di un business restringe in modo sensibile lo spettro di ciò che uno sviluppatore può proporre, quanto piuttosto a quello comunicativo. Dear Esther pone la comunicazione al centro della propria esistenza, e per questa ragione sovverte gli equilibri tra gli elementi che di solito associamo al videogioco, oppure da loro un significato differente. Abbiamo un unico elemento meccanico che è quello del camminare, associato al vedere ed all'ascoltare, assolutamente indispensabili per cogliere un mondo ricchissimo di affascinanti sottintesi: non è il primo caso in cui semplificare l'interazione contribuisce a dare maggiore impatto ad un'esperienza interattiva - esempi di ciò attraversano tutti i canali di distribuzione indie per PC e console - ma qui il sacrificio è decisamente più estremo. Sarebbe più corretto descrivere Dear Esther come un'esperienza che nasce usando gli strumenti del videogioco, ma che tale alla fine non è, e probabilmente non vuol nemmeno essere. Si tratta di un racconto avvolgente e criptico, perfettamente calibrato nella sua durata e foriero di un messaggio splendido che purtroppo, gran parte delle recensioni mainstream non è riuscito ad evidenziare per bene. A voi, Dear Esther.
Per capire in quali termini si parla comunemente dei videogiochi, basta dare un’occhiata al nostro blog come a qualsiasi altro medium dedicato all’argomento… Ed è impossibile non denotare una certa uniformità. Sensi di déjà-vu si accavallano l’uno sull’altro come mattoni per le ragioni più varie, formando un muro tanto alto quanto uguale a sé stesso, e può capitare che ad un certo punto, su quel muro ci si stanchi di arrampicarsi. Non che la scalata non procuri certi occasionali brividi, ma può essere questa una ragione sufficiente per mantenersi videogiocatori appassionati e a lungo termine? Un po’ si, ed un po’ no. Perché vedete, in rare occasioni capita che ti piombi addosso un titolo come Dear Esther, ed è come se il muro infinito di pocanzi si rovesciasse all’improvviso, scorticandosi alla maniera di Silent Hill e mostrando un lato di sé del tutto nuovo.
Il che conduce alla domanda topica, ossia “cos’è Dear Esther“? È un viaggio surreale in soggettiva che sembra voler rispondere ad un’altra domanda, ossia “cosa ne è del nostro vivere quando si deposita nell’inconscio, in un mondo interiore che non sappiamo di avere ma che costruiamo esperienza dopo esperienza?”. Per quanto possa sembrare assurdo che un quesito del genere si insinui nell’ambito del videogioco, Dear Esther sfrutta abilmente le caratteristiche del medium e ne offre un’interpretazione affascinante tanto dal punto di vista metodologico quanto da quello del pensiero, della riflessione. L’inconscio in cui si svolge la vicenda somiglia ad un’isola del Nord Europa, deserta e punteggiata da rari segni di civilizzazione: è un luogo ove la natura domina incontrastata, ma da cui emergono simboli e frasi incisi o pitturati in modi insondabili, persino nei più profondi recessi sotterranei.
In Dear Esther è impossibile correre, saltare o impadronirsi di oggetti che attribuiscano all’utente un qualsiasi potere o abilità fattuale. C’è semplicemente da esplorare e raggiungere punti di interesse presso cui una voce fuori campo (che dovrebbe essere quella del protagonista, ma questo è solo il primo tra i tanti dati opinabili del gioco) svela i suoi pensieri, producendosi in riflessioni al limite tra il poetico ed il surreale. È piuttosto difficile rintracciare un nesso tra indizi vocali e simboli, innanzitutto perché l’ordine in cui li si incontra cambia ad ogni nuova partita, e secondariamente perché il loro legame risiede interamente nel messaggio che conclude l’avventura. Che tale messaggio costituisca il finale unico di Dear Esther è tutto fuorché un difetto. Al contrario, la brevità dell’esperienza (circa 2 ore) vi indurrà a ripeterla più volte per scoprire quali nuovi e imprevedibili indizi vi condurranno a quell’esito, comprendendo sempre meglio il puzzle narrativo approntato dagli autori.
Infine, sarebbe impossibile parlare di Dear Esther trascurando il potentissimo incentivo costituito dall’isola stessa: è un luogo la cui bellezza selvaggia abbraccia ed inquieta allo stesso tempo, abbinando la cura scenografica dei titoli Irrational ad una progettazione sonora degna dei migliori prodotti DICE (splendidi i brani atmosferici di Jessica Curry). Raramente capita di avvertire la sensazione di essere osservati dai luoghi virtuali che visitiamo, come raramente accade di imbarcarsi in un’esperienza che mette in discussione la propria sensibilità, la propria disposizione a capire che ciò che si guarda senza comprendere, in fondo, è soltanto il riflesso di sé stessi. Cupo, introspettivo e misterioso, Dear Esther si racconta in un linguaggio personalissimo che lo colloca aldilà del videogioco, del cinema o della letteratura. Chissà se thechineseroom mirava davvero a far parlare del suo prodotto in questi termini.
Ah, un’ultima cosa… Occhio ai fantasmi!
Per capire in quali termini si parla comunemente dei videogiochi, basta dare un’occhiata al nostro blog come a qualsiasi altro medium dedicato all’argomento… Ed è impossibile non denotare una certa uniformità. Sensi di déjà-vu si accavallano l’uno sull’altro come mattoni per le ragioni più varie, formando un muro tanto alto quanto uguale a sé stesso, e può capitare che ad un certo punto, su quel muro ci si stanchi di arrampicarsi. Non che la scalata non procuri certi occasionali brividi, ma può essere questa una ragione sufficiente per mantenersi videogiocatori appassionati e a lungo termine? Un po’ si, ed un po’ no. Perché vedete, in rare occasioni capita che ti piombi addosso un titolo come Dear Esther, ed è come se il muro infinito di pocanzi si rovesciasse all’improvviso, scorticandosi alla maniera di Silent Hill e mostrando un lato di sé del tutto nuovo.
Il che conduce alla domanda topica, ossia “cos’è Dear Esther“? È un viaggio surreale in soggettiva che sembra voler rispondere ad un’altra domanda, ossia “cosa ne è del nostro vivere quando si deposita nell’inconscio, in un mondo interiore che non sappiamo di avere ma che costruiamo esperienza dopo esperienza?”. Per quanto possa sembrare assurdo che un quesito del genere si insinui nell’ambito del videogioco, Dear Esther sfrutta abilmente le caratteristiche del medium e ne offre un’interpretazione affascinante tanto dal punto di vista metodologico quanto da quello del pensiero, della riflessione. L’inconscio in cui si svolge la vicenda somiglia ad un’isola del Nord Europa, deserta e punteggiata da rari segni di civilizzazione: è un luogo ove la natura domina incontrastata, ma da cui emergono simboli e frasi incisi o pitturati in modi insondabili, persino nei più profondi recessi sotterranei.
In Dear Esther è impossibile correre, saltare o impadronirsi di oggetti che attribuiscano all’utente un qualsiasi potere o abilità fattuale. C’è semplicemente da esplorare e raggiungere punti di interesse presso cui una voce fuori campo (che dovrebbe essere quella del protagonista, ma questo è solo il primo tra i tanti dati opinabili del gioco) svela i suoi pensieri, producendosi in riflessioni al limite tra il poetico ed il surreale. È piuttosto difficile rintracciare un nesso tra indizi vocali e simboli, innanzitutto perché l’ordine in cui li si incontra cambia ad ogni nuova partita, e secondariamente perché il loro legame risiede interamente nel messaggio che conclude l’avventura. Che tale messaggio costituisca il finale unico di Dear Esther è tutto fuorché un difetto. Al contrario, la brevità dell’esperienza (circa 2 ore) vi indurrà a ripeterla più volte per scoprire quali nuovi e imprevedibili indizi vi condurranno a quell’esito, comprendendo sempre meglio il puzzle narrativo approntato dagli autori.
Infine, sarebbe impossibile parlare di Dear Esther trascurando il potentissimo incentivo costituito dall’isola stessa: è un luogo la cui bellezza selvaggia abbraccia ed inquieta allo stesso tempo, abbinando la cura scenografica dei titoli Irrational ad una progettazione sonora degna dei migliori prodotti DICE (splendidi i brani atmosferici di Jessica Curry). Raramente capita di avvertire la sensazione di essere osservati dai luoghi virtuali che visitiamo, come raramente accade di imbarcarsi in un’esperienza che mette in discussione la propria sensibilità, la propria disposizione a capire che ciò che si guarda senza comprendere, in fondo, è soltanto il riflesso di sé stessi. Cupo, introspettivo e misterioso, Dear Esther si racconta in un linguaggio personalissimo che lo colloca aldilà del videogioco, del cinema o della letteratura. Chissà se thechineseroom mirava davvero a far parlare del suo prodotto in questi termini.
Ah, un’ultima cosa… Occhio ai fantasmi!
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