Sunday, 5 May 2013

Recensione - Kentucky Route Zero Act 1


Quando nel cinema o nella letteratura si vuol narrare qualcosa di magico, qualcosa che allontani dalla frenesia del quotidiano recuperando una dimensione di vita più calda, accogliente ed al tempo stesso misteriosa, spesso lo si ambienta in località del Sud. Non è tanto una convenzione, quanto piuttosto uno stato d’animo: l’indicazione geografica assume infatti un significato simbolico che ha a che fare con la fuga dalla realtà, o comunque con una sua visione nella quale entrano in gioco elementi esotici e surreali. Non a caso la corrente letteraria del realismo magico ha la sua cifra nell’opera del colombiano Gabriel Garcia Marquez, e per quanto in questa sede si voglia descrivere qualcosa di infinitamente più piccolo dal punto di vista culturale, contestualizzare il discorso era necessario a porvi nel giusto atteggiamento mentale.

Definendo “piccolo” Kentucky Route Zero non lo si vuol certo privare dei suoi meriti: il titolo ha ottenuto un meritatissimo premio di Eccellenza per le Arti Visuali all’ultimo Independent Games Festival, ed intuire la ragione è banale nel momento stesso in cui le immagini del titolo cominciano a scorrere (o più propriamente ad emergere) sul monitor. Il duo di artisti che compone Cardboard Computer LLC. ha optato per un look vettoriale alla Another World, dove forme e colori prevalgono sul dettaglio intrinseco servendo all’osservatore un suggestivo invito all’immaginazione. L’uso di Unity, ossia di un ambiente di sviluppo essenzialmente tridimensionale, ha consentito di articolare le scenografie in piani di profondità che emergono da una colorata foschia di fondo allorché il protagonista si muove verso l’interno o l’esterno. Alcuni piani ed oggetti diventano invisibili in presenza di luci artificiali, suggerendo l’idea che per progredire in Kentucky Route Zero sia necessario spogliarsi delle proprie certezze – o più prosaicamente, sfruttare un pizzico di pensiero laterale.
Con poche e semplici soluzioni estetiche, Cardboard Computer ha ricostruito splendidamente la percezione del mondo legata ad un genere letterario, cosa di cui pochi titoli al giorno d’oggi possono vantarsi. Lo stesso gameplay è un distillato del modello punta e clicca che si limita a far muovere il personaggio la dove indica il puntatore del mouse, ed a scarne interazioni ambientali che riguardano perlopiù l’attivazione di meccanismi. L’unico controllo utilizzabile a piacimento consiste nello spegnere o accendere una torcia elettrica.
Parlando di trama e progressione, Kentucky Route Zero racconta la storia del fattorino di mezza età Conway, incaricato di effettuare una consegna presso una contrada del Kentucky chiamata appunto Route Zero. Sfortunatamente il luogo non compare in alcuna mappa, per cui Conway è costretto a spostarsi lungo l’arteria principale dello stato americano, la vecchia Route 66 (un semplicissimo reticolo di linee bianche su sfondo nero), seguendo le criptiche indicazioni dei personaggi che incontra. Il piano della realtà si interseca con quello dell’illusione sin dai primi minuti: Conway affronta conversazioni su argomenti che non conosce, asseconda richieste apparentemente bizzarre, visita luoghi e vede cose che altri non vedono. L’unico modo in cui il giocatore può tentare di fare ordine in ciò che gli accade consiste nel reiterare i dialoghi – peraltro privi di opzioni giuste o sbagliate – ma senza mai aspettarsi di ricevere risposte chiare. Kentucky Route Zero si dipana per misteriose sottotrame che contribuiscono a spingere Conway verso la sua prossima meta, ma di per sé non hanno una risoluzione esplicita.
Si astengano dunque i dottori della narrazione, coloro i quali di fronte ad un binario spezzato della trama soccombono ad un insostenibile horror vacui, anziché lasciarsi avviluppare dal mistero. Perché proprio questa sembra la chiave di lettura di Kentucky Route Zero – un titolo privo di sfida e di complicazioni, ma pregno di un’atmosfera tanto insondabile quanto indiscutibilmente magnetica. Siete di fronte ad un televisore mal sintonizzato, ed armeggiate con l’antenna nel tentativo di cogliere dietro al rumore video le immagini di quel programma che tanto vi interessa. All’improvviso, l’ingresso cavernoso della Route Zero compare proprio dinnanzi a voi, e capire ciò che è successo prima non ha più importanza: sapete soltanto di dover proseguire il vostro viaggio verso la verità.
Kentucky Route Zero è pubblicato in maniera indipendente sul sito web di Cardboard Computer e su Steam. Il gioco si articola in 5 atti (quella recensito è ovviamente il primo) e lo si può acquistare per 18€ su PC Windows, Mac OS X e Linux; gli atti successivi, ancora inediti, verranno recapitati automaticamente nel giorno d’uscita. Preordinando dal sito degli autori è offerta in regalo la colonna sonora in formato mp3, il tutto senza DRM. Volete capire se il genere fa per voi? Scaricate gratuitamente il breve spin-off ‘Limits and Demostrations’.

Sunday, 18 November 2012

"One City Block": the future of RPGs or a far flung utopia?

In very recent times, I stumbled upon an idea by Warren Spector (Deus Ex, Epic Mickey) known in the game development circles as One City Block RPG. The best definition comes from its own creator:

"My ultimate dream is about finding someone fool enough to bankroll the creation of what I call a One City Block RPG, where we simulate a building or a small neighborhood in the greatest detail. I strongly long for worlds with deep interactions. My ultimate game would take place in a single neighborhood, and I'll get to do it one day or another."


In other words, according to Spector, simulating every single detail of the reality and life of a definite space (like a building, for instance) would be more than enough to sustain a high level RPG experience. It's a mighty interesting concept, as it envisions highly interactive stages where every single action the player does, even the most trivial one, can lead to enormous consequences on the surrounding context: the player would be given the chance to manipulate each and every single object in the world at his leisure, in their normal functions or in creative and unusual ways. The same goes for social interactions, with non playing characters (NPCs) able to respond to the player's interactions according to fully simulated personalities and behaviours.

This kind of description immediately sets the One City Block RPG up as a system where a considerable amount of procedural processes takes place within the general boundaries established by the authors (the rules of the world and the goals of the game), generating for the most part unpredictable events. It's a system that implies and glorifies the so called 'emergent narrative' (*) as a mean to diversify and branch out the game experience. Previous examples shows that this is a viable solution (I think about the Radiant AI algorithm used in Bethesda's role playing games, though still limited to the creation of small linear subplots hinged on small sets of variables).

On the other hand, waiting for research to get to a point where deep, rich and nuanced plots can be generated automatically, and in financial compatibility with both the budgets of AAA productions and the final retail price, doesn't seem as viable. The main concerns are that such an achievement may be dozens of years away, with devaluation of human literary talent as an unpleasant side effect, which is certainly not among Spector's desires. A realistic One City Block RPG will have to make do with "simply" marrying the procedurality of its simulations and the high granularity of the interactions with story elements provided by a writer, ensuring the necessary narrative quality, with stricter rules for the game's world.

Luckily enough, Warren Spector is not the only one researching the One City Block RPG - on the contrary, he's at risk of being predated. France based Arkane Studios has stated that similar principles lays at the heart of Arx Fatalis (2002 - PC, Xbox), and more recently, Quantic Dream got remarkably close to the idea with its sandbox adventure Heavy Rain (2010 - PS3). The Yakuza series contitutes a far approximation. Furthermore, 2013 will see Fullbright Company releasing Gone Home, a project solely based on exploration of a solitary, deserted mansion; environmental interaction will be the only way to unravel its mysteries.

* Under the name of 'emergent narrative' goes the events caused by the user's interaction with certain automatisms implemented in the game software. As the effects are entirely dependent on the player's actions, they are not always predictable by the designers and thus constitutes a new, 'emergent' story.

Friday, 16 November 2012

Paura di lasciarsi stupire, Mr. Pachter? [Nintendo WiiU]

"Nintendo deve semplicemente smetterla di vivere nel passato, siamo nel 2012. Hanno avuto un grande successo dal 1985 in poi, producendo hardware proprietari e supportandoli con software proprietari. Hanno attratto le terze parti sulla scorta della base installata che sono riusciti ad ottenere. Ed ora mi sembrano convinti che "se siamo noi a costruirlo, le terze parti daranno il loro supporto",  ma non credo che con WiiU andrà così. Provando ad essere alternativi con il loro tablet controller, hanno complicato il processo di game design per gli sviluppatori, che ancora non sanno se la macchina supporterà solo uno o più controller.

Nintendo ha creato un dispositivo unico a sufficienza da alienarsi già in partenza il supporto delle terze parti al lancio, e questo significa scarse vendite. Dovrebbero rinunciare alla strategia che li ha portati sin qui, perchè oggi non sembra più funzionare. Credo che debbano guardare al di fuori di sé stessi per capire come avere successo nel settore dei download digitali, delle interfacce user-friendly e del gioco in multiplayer."



Leggendo questo commento di Michael Pachter, analista dell'istituto Wedbush Morgan ironicamente noto come "il Nostradamus della gaming industry", non posso fare a meno di rilevare come anche individui calati giornalmente nella realtà economica del videogiochi interpretino in maniera opinabile - o sottovalutino del tutto - due elementi di grande importanza in quell'ambito, ossia il potere dei brand e l'inventiva. Il brand rappresenta l'interfaccia tra il prodotto ed il pubblico, ovvero stabilisce visivamente l'identità di un'azienda e con essa, l'insieme di valori che contraddistinguono i suoi prodotti: sinora Nintendo ha gestito splendidamente questa parte del suo business, tanto che quando un giocatore sente parlare di Mario o di Zelda, nella sua mente si forma subito un'idea di qualità. Un'idea che è anche base sufficientemente solida per poggiarvi sopra delle proposte hardware in apparenza difficili da far digerire al mercato.

La storia di Nintendo DS parla da sé, in questo senso. A metà del 2004, l'idea generale era che PSP avrebbe stracciato l'innovativo portatile dual screen offrendo controlli più completi, tanta potenza e in generale, lo stesso tipo di familiarità con l'esperienza PS2 che tanti, tantissimi utenti all'epoca conoscevano e sperimentavano ogni giorno. Sfortunatamente, i costi associati allo sviluppo ed un supporto tiepido dalle terze parti mandarono all'aria i sogni di Sony, e non perchè il gigante giapponese difettasse di brand validi. Il problema, forse, germinava nell'idea di aver conquistato tutto ciò che c'era da conquistare in termini di clientela, e di aver creato una sorta di guinzaglio per cui ogni proposta commerciale sarebbe stata accettata indipendentemente dalla sua ragionevolezza.
Solo in tempi recentissimi Sony pare avere intuito l'anacronismo di questo atteggiamento, ed affronta una sfida di enorme portata sulla forma da attribuire al progetto PlayStation 4.

Guardando alla storia della progettazione hardware presso Nintendo, ci si accorge di come l'azienda giapponese abbia spesso camminato ai margini della ragionevolezza per ciò che riguarda i prezzi finali delle sue macchine, mettendo in luce virtù alternative in macchine dalle performance oggettivamente limitate (l'esempio principe sta nel progetto Gameboy, che in tutte le sue versioni, ha ruotato intorno all'utilizzo di processori anni '70 fatti sopravvivere sino a 2003 inoltrato, e con un rateo di discesa dei prezzi incredibilmente lento). Nintendo ha pienamente trasferito questo approccio progettuale dalle console portatili a quelle casalinghe nel 2006 con Wii, ed oggi tenta di portare avanti il discorso grazie a WiiU, sebbene in maniera un po' meno ispirata: guardando dalla distanza, il nuovo sistema di Kyoto assomiglia tantissimo ad un DS "in grande" con touch screen decentralizzato. Un errore?

Di certo non nell'ottica degli ingegneri Nintendo. Se come è ampiamente probabile, questa è stata la loro idea di base, va pur detto che la si sta eseguendo in maniera tale da attrarre trasversalmente tutti, dall'hardcore gamer più incallito ai "touch player" (quelli costantemente a capo chino su smartphone e tablet), passando ovviamente per che si è scoperto giocatore in seguito alle revoluciòn Wii e DS. Ed è chiaro come questo genere di operazione richieda una certa creatività. Perchè WiiU contempla non due, non tre, ma ben 4 interfacce: i controlli fisici del pad, il touch screen, il sintagma formato da telecamere, microfono ed accelerometro, ed infine lo schermo televisivo. Da un canto, avere tutti questi dispositivi aumenta esponenzialmente le possibili implementazioni di game design e fa si che ogni potenziale utente ritrovi nella piattaforma qualcosa di familiare con cui confrontarsi.

Altro canto è, dal punto di vista progettuale, far si che tutto questo corpus sia rappresentato in maniera lineare ed intuitiva dal sistema operativo, affinchè il giocatore non si perda tra le tantissime funzioni della console - funzioni che tra l'altro, ogni sviluppatore utilizzerà a modo proprio ed in maniera disomogenea. Il fabbricante ha tentato di metterci una pezza pubblicando al lancio NintendoLand, creato appositamente per dimostrare tutte le caratteristiche del pad controller a suon di minigiochi più o meno divertenti; altri produttori hanno optato per convertire i loro prodotti in maniera semplice e lineare (Tekken Tag Tournament 2) senza investire in ricerca specifica. C'è quindi un problema di "linguaggio" con WiiU che è molto più articolato rispetto a quello posto da DS, Wii e 3DS.

Ciò che dovremmo tutti augurarci è che questo ostacolo venga superato al più presto, con applicazioni brillanti che sin da subito dicano al pubblico "questo è WiiU, e si può fare solo qui!". Soltanto così si potrà giustificare un prezzo al dettaglio non indifferente per il tipo di hardware (il fatto che un solo tablet controller costì la metà di tutta la console chiarifica che non ci troviamo sicuramente di fronte ad un Cray Titan). Sfortunatamente, a Wii sono occorsi 5 anni sul mercato prima di trovare in Zelda: Skyward Sword un'implementazione del motion gaming davvero prossima alla perfezione. Ma non scordiamoci che storicamente, ricombinare elementi in maniera imprevedibile ed accattivante è uno tra i più grandi punti di forza del reparto Ricerca e Sviluppo di Nintendo. Ha forse paura di lasciarsi stupire, Mr. Pachter?

Friday, 24 August 2012

Si alzano i prezzi dei giochi per smartphone: ne vale davvero la pena?

Ebbene si, siamo dominati dal caos più totale in ambiente iOS e Android. Posso dirlo con certezza dopo avere appreso che con l'ennesimo coup de théâtre, Square-Enix ha deciso di prezzare il suo Final Fantasy Dimensions alla "modica" cifra di 29$, l'equivalente dei nostrani 23€. Osservando la natura del prodotto, non è difficile capire che per quanto longevo o ben sceneggiato possa essere, esiste una differenza davvero enorme tra il prezzo ufficiale ed il valore materiale dell'opera: questo perchè a beneficio dei meno informati, Final Fantasy Legends: Hikari to Yami no Senshi (questo il nome giapponese originale) è in origine un titolo per cellulari FOMA creato dagli autori di Final Fantasy IV: The After Years, nonché di numerosissime riedizioni di classici Square-Enix per console portatili come Nintendo DS e PSP.

Chiunque si ritrovi in casa uno qualsiasi tra questi remake non faticherà a riconoscere in Dimensions gli stessi sprites, talvolta modificati in qualche minuscolo particolare e riproposti in upscale usando il filtro 2xSal di Maxim Stepin che ritroviamo in una vasta gamma di emulatori gratuiti per PC (Maxim ha reso di pubblico dominio il codice in C++ dell'algoritmo, per cui chiunque può utilizzarlo a piacimento nei propri programmi). Lo stesso discorso si estende alle animazioni ed alle musiche, peraltro incorniciate da un'interfaccia di qualità poco più che amatoriale. Pensate che l'edizione FOMA di Final Fantasy Dimensions è venduta in Giappone per 525 yen, ossia 5 euro e 30 centesimi.


Adesso, potremmo fermarci all'esempio specifico e chiederci come mai un gioco dai valori produttivi inferiori a quelli di un prodotto per SNES (si giungerebbe forse all'equivalenza, se non fosse per l'enorme numero di assets riciclati) finisca per costare così tanto, ma in verità il problema sta nella politica generale che Square-Enix, forse un tantino più furba o superba di altri produttori, ha deciso di applicare al settore mobile. Che è un settore tanto variegato quanto informe, dove ognuno può fare ciò che vuole e di conseguenza, gestire i prezzi in totale libertà. Vedete, questo non succede soltanto perchè Apple e Google lo consentono, ma anche perchè un produttore come Square-Enix è ben consapevole del fatto che chi gioca su smartphone non va certo a chiedersi quanto sia costato produrre un gioco, né da dove derivi il prezzo che vede su App Store. Forse, di base c'è anche l'idea che un marchio come quello di Final Fantasy sia di per sé garanzia di una qualità superiore, e che quindi sia naturale prezzare al di sopra della media ogni prodotto che lo esponga... Tuttavia, ciò sembra implicare che il giocatore non sia consapevole di giocare su un cellulare.

Il mio personale auspicio è che questa consapevolezza sia più diffusa di quanto Square-Enix non pensi, anche perchè eventuali dati di vendita positivi verrebbero immediatamente dati in pasto alla stampa per validare la fuorviata strategia del publisher. Con Final Fantasy Dimension si sta provando a testare un limite, ossia quello del "quanto possiamo spingerci oltre coi prezzi senza che i giocatori finiscano per volgere lo sguardo verso le console portatili". Quel limite, nell'avviso di chi vi scrive, è stato già abbondantemente varcato e sarebbe il caso che i diretti interessati comincino a guardare un po' oltre i confini dei loro magnifici display Retina e OLED: potrebbero scoprire macchine più performanti, meno costose e capaci di offrire esperienze di gioco il cui valore è realmente proporzionato al prezzo finale. 

Friday, 6 April 2012

Il GdR Definitivo secondo Lord British [traduzione italiana]

Mi prendo la briga di tradurre per intero un documento pubblicato su Facebook da Richard Garriott, nel quale egli descrive le caratteristiche chiave di un "GdR ideale" sviluppato secondo le proprie idee e l'esperienza maturata nel corso della sua lunghissima carriera da sviluppatore. Appassionato di astronautica e prestidigitazione, nonché inguaribile sognatore, Richard Garriott regala a tutti gli appassionati di giochi di ruolo per computer (dai semplici giocatori a coloro i quali vorrebbero cimentarsi nel realizzarne uno) una lettura davvero essenziale. Assicuratevi comunque di avere una ventina di minuti liberi. [ndStrider]


(fonte: http://www.facebook.com/note.php?note_id=259507887434380)

Cos'è il Gioco di Ruolo "Definitivo" di Lord British?

La storia comincia prima dei Personal Computer

I miei tentativi di creare un Gioco di Ruolo "Definitivo" iniziarono molto prima di Ultima, e continuerò a provare ancora per molto tempo.

Incominciai il mio sentiero verso il Gioco di Ruolo "Definitivo" (GdR Definitivo) attorno al 1974, alle scuole superiori. Sono passati 36 anni, ma sembra ieri. Il 1974 fu un anno propizio per me. La mia sorellastra mi regalò una copia de Il Signore degli Anelli, il primo racconto fantasy della mia vita, e ne fui immediatamente catturato. Poco dopo, fui iniziato al fenomeno nascente di Dungeons & Dragons. In poco tempo organizzai grandi gruppi da 30 a 100 giocatori, i primi del loro genere, che si incontravano quasi ogni venerdi e sabato per sessioni di gioco nelle varie stanze della casa dei miei genitori, a Houston. I miei compiti di inglese a scuola diventarono novelle fantasy ambientate nel primo mondo fantastico di mia invenzione, Sosaria, che diventò la base per le mie campagne di D&D e per molti dei miei videogiochi. Alla fine, anni prima che i personal computer esordissero sul mercato, scoprii una telescrivente digitale abbandonata. Convinsi la facoltà a crearmi un piano di studio autonomo, senza insegnanti né programmi aldilà dell'imparare da solo come programmare quella telescrivente, e mostrai loro i risultati come prova utile ad ottenere dei crediti per il corso di lingue straniere... All'epoca, il BASIC (Beginners All-purpose Symbolic Instruction Code) era una lingua straniera per la maggioranza delle persone! Giusto? Quando la scuola fu d'accordo, la mia missione per il GdR Definitivo cominciò sul serio! È una missione che continua tutt'oggi.

Denominai la prima generazione dei miei giochi D&D 1-28. Erano giochi scritti sulla telescrivente scolastica, conservati in rotoli di carta ed eseguiti tramite modem acustico su un server remoto PDP 11. Impiegavano caratteri alfanumerici come simboli grafici. "A" indicava una formica gigante, "$" era un forziere, ma senza dubbio erano tentativi di RPG Definitivo in stile Ultima, con caratteri di testo in luogo dei più comuni tile grafici. La grafica non è l'elemento essenziale di un RPG Definitivo.

La Prima Grande Era dei Giochi – Giochi single player

Il mio primo gioco commerciale, che fu uno tra i primi giochi commerciali per PC in assoluto, fu Akalabeth. Quando l'Apple][ arrivò sulla scena, ebbi finalmente la possibilità di creare grafica in tempo reale! Potevo abbinare dungeon completi in 3D a scene esterne in prospettiva aerea. Nelle fondamenta, il gioco era chiaramente radicato nella storia dei precedenti 28 giochi scritti per D&D. Non creai Akalabeth per pubblicarlo, lo feci semplicemente per me ed i miei amici. Fu John Mayer, proprietario del negozio Computerland dove lavoravo in estate, che mi incoraggiò ad investire la considerevole (per uno studente di quei tempi) somma di 200 dollari per "pubblicare" il gioco presso la bacheca del negozio.

Nel giro di qualche settimana, una compagnia chiamata California Pacific venne in possesso di una tra le prime copie di Akalabeth e mi contattò dicendomi di volerlo pubblicare a livello nazionale! Il presidente della compagnia, Al Remmers, suggerì di non identificarmi come autore usando il mio nome di tutti i giorni, rimpiazzandolo piuttosto con quello del mio personaggio di gioco più riuscito, Lord British. Finì per diventare ben più di un nome d'arte bizzarro da mettere nelle confezioni. Lord British mi identifica sia come creatore, sia come simbolo creativo all'interno del gioco. Mi sono unito al giocatore e ne ho condiviso l'esperienza, un'idea che si è rivelata essere preziosa nel tempo. Partecipare al mondo che si crea è una parte preziosa del GdR Definitivo.

{Trivia – Softalk Magazine creò un concorso intitolato “Chi è il vero Lord British”, ipotizzando che si trattasse di una persona chiamata Beth a Los Angeles… Also-Known-As-LA-Beth -> Akalabeth!}

Ultima I, II e III – Imparando a creare un gioco e un mondo

Col successo di Akalabeth, decisi di concepire il mio primo lavoro diretto al grande pubblico. In origine, il gioco si chiamava Ultimatum! Costruito su una base di codice molto simile a quella di Akalabeth, contribuì a rifinire le tecniche di creazione dei mondi virtuali alla maniera di Richard Garriott. Le mappe di gioco erano basate perlopiù su quelle usate per descrivere Sosaria in D&D.  A lavori ultimati, lanciammo il gioco usando il nome Ultima. Gli ambienti creati con grafica a tile divennero uno strumento utile a realizzare mondi dalle interazioni dettagliate, si poteva toccare tutto ciò che compariva a schermo ed interagire con esso, non soltanto con i mostri che comunque erano una parte fondamentale della mia filosofia di design. Interazioni dettagliate col mondo di gioco fanno parte dell'essenza di un GdR Definitivo.

In qualità di discepolo dei grandi lavori di Tolkien e Gygax, ho votato sin dall'inizio tutti i miei lavori alla creazione di realtà più profonde rispetto alla semplice caccia ai mostri, al reperimento di tesori o all'incremento di livello, che erano e sono tutt'oggi i capisaldi di ogni esperienza ruolistica! Storie complete, linguaggi e sceneggiature erano alla base di questi primi tentativi. Storie culturali, linguaggi e scritture peculiari sono parte integrante del GdR Definitivo.

Thursday, 8 March 2012

Sviluppo giapponese in declino, per quali ragioni?

Inside the Game continua ad essere un luogo di confronto estremamente interessante e "popolare". L'attualità offre spunti molto interessanti, e partendo da quello offerto dal creatore di Fez Phil Fish, (durante il panel della GDC 2012 dedicato a Indie Game: The Movie, ha apertamente attaccato la gaming industry giapponese con un sonoro "i vostri giochi fanno schifo"), ci si chiede se la crisi dello sviluppo giapponese è reale e soprattutto, da cosa deriva. Ecco il botta e risposta tra me e Jabba, che tra le altre cose lancia un importante spunto affermando che la scena indie sta andando incontro ad una mitizzazione eccessiva.

Le chiacchiere sono a zero, una manciata di ottimi titoli non possono cambiare la realtà. C’è stato un cambiamento enorme sia in giappone che nel mondo intero, è come la caduta dell’impero romano, un giorno c’è e un giorno non c’è più. Il giappone un giorno prima era moda/stile/avanguardia e il giorno dopo si è ritrovato, chissà se volontariamente, nella posizione opposta. Square non ci sta capendo un cazzo, quello non è innovare è non capirci un cazzo, non a caso i giochi migliori glieli hanno sfornati in occidente. Capcom ha iniziato la generazione alla grande, sembrava l’unica che ci capiva qualcosa nel marasma nipponico, ma poi ha avuto grossi problemi di management (e lo dice Inafune, non io) e ha mandato un pò in vacca tutto il buon lavoro svolto. NamcoBandai non esiste più, fortuna che i picchiaduro sono ripartiti alla grande altrimenti erano cazzi pure per loro. Sega pure i soldi li fa con l’occidente, e li perde pure per scarso management (un’altra volta), guardare il caso Avallone ed Alpha Protocoll. Fortuna che c’è Nintendo, ma pure loro hanno visto la morte in faccia. Ripeto, il giudizio del tipo è volutamente affilato, non è vero che “i giochi giapponesi fanno schifo”, ma è vero che un bel calcio al culo, per svegliarli per benino, bisogna darglielo. Poi il fattore terremoto sta influendo, ma sono molto belle le parole di Koichi Hayashida a tal proposito, rilasciate nel suo intervento alla GDC, cercatele...




Ed ecco la mia replica:

Il settore indie sarà anche mitizzato, ma costituisce un ambiente di sviluppo privo di rischi e quindi altamente creativo. Anche l’industria AAA insegna: dove c’è maggior possibilità di correre rischi, nascono le cose migliori.

Quanto alla questione relativa al declino dell’industria giapponese, mi pongo in una posizione abbastanza democratica: ormai gran parte delle innovazioni tecnologiche arrivano da Occidente, ed hanno fatto si che lo stile “drammatico” dei prodotti europei ed americani si prendesse una bella fetta di mercato. È uno stile che piace, visti i risultati di mercato, ma definirli esenti da critiche sarebbe folle – una su tutte quelle della ripetitività e della sindrome da sequel.

Quel che Keiji Inafune è tornato a dire è “creiamo nuovi brand e spremiamoli alla maniera degli occidentali”, cosa che SEGA ha capito ormai da tempo e che fa con la serie di Yakuza (Binary Domain è pronto a subire la stessa gestione). Un altro elemento chiave del successo occidentale che i giapponesi dovrebbero contrarre è il reimpiego della tecnologia: MT Framework sarà anche un bellissimo middleware, ma se non lo dai in licenza a prezzi competitivi sei andato. Che ne è degli engine sfornati da Square-Enix negli ultimi 5 anni? E perchè Sony non fa crescere sul suo mercato quella bomba del PhyreEngine, usato pochissimo?

L’Occidente è salito in cattedra per ragioni di questo genere: i vari Unreal Engine, CryEngine, Gamebryo e via dicendo sono motori completi, potenti, multifunzionali e soprattutto, splendidamente documentati. I produttori licenziatari offrono grande supporto a chi acquista le loro tecnologie, rendendo più facile la produzione di software tripla A… In altre parole, i coder occidentali si stanno reciprocamente aiutando – anche per una questione di vicinanza comunicativa e geografica: la lingua inglese è un patrimonio che mette insieme Europa e States mentre i giapponesi, che non comunicano praticamente con nessuno, stanno imparando a farlo solo ora nell’ambito dei videogiochi.

Cos’ha a che fare tutto questo con la creatività? Relativamente poco. Il Giappone ha il suo immaginario e la sua cultura, credo che i principi di base del loro fare videogiochi non siano poi tanto cambiati – li apprezziamo meno perchè adesso ci sono prodotti culturalmente più vicini alla nostra sensibilità e di qualità elevata. Ma non facciamo l’errore di dire che è tutto buono ciò che viene da casa nostra perchè così non è, e lo sappiamo tutti molto bene: i grandi sviluppatori occidentali hanno seri problemi quando si tratta di innovare, per questo si va a mitizzare il comparto indie o quei pochi prodotti giapponesi che si distinguono. E questo chiude il cerchio del discorso.

Monday, 5 March 2012

Recensendo Dear Esther

Riporto sul mio blog personale una recensione creata per Inside the Game che ho scritto di getto, subito dopo aver terminato la mia prima partita con Dear Esther su PC. Il mondo dello sviluppo indipendente è qualcosa di veramente straordinario, soprattutto in quanto dimostrazione del fatto che solo in un ambiente privo di rischi il videogioco può esprimere autenticamente il suo potenziale. Non mi riferisco tanto al rischio commerciale, che essendo parte di un business restringe in modo sensibile lo spettro di ciò che uno sviluppatore può proporre, quanto piuttosto a quello comunicativo. Dear Esther pone la comunicazione al centro della propria esistenza, e per questa ragione sovverte gli equilibri tra gli elementi che di solito associamo al videogioco, oppure da loro un significato differente. Abbiamo un unico elemento meccanico che è quello del camminare, associato al vedere ed all'ascoltare, assolutamente indispensabili per cogliere un mondo ricchissimo di affascinanti sottintesi: non è il primo caso in cui semplificare l'interazione contribuisce a dare maggiore impatto ad un'esperienza interattiva - esempi di ciò attraversano tutti i canali di distribuzione indie per PC e console - ma qui il sacrificio è decisamente più estremo. Sarebbe più corretto descrivere Dear Esther come un'esperienza che nasce usando gli strumenti del videogioco, ma che tale alla fine non è, e probabilmente non vuol nemmeno essere. Si tratta di un racconto avvolgente e criptico, perfettamente calibrato nella sua durata e foriero di un messaggio splendido che purtroppo, gran parte delle recensioni mainstream non è riuscito ad evidenziare per bene. A voi, Dear Esther.
   

Per capire in quali termini si parla comunemente dei videogiochi, basta dare un’occhiata al nostro blog come a qualsiasi altro medium dedicato all’argomento… Ed è impossibile non denotare una certa uniformità. Sensi di déjà-vu si accavallano l’uno sull’altro come mattoni per le ragioni più varie, formando un muro tanto alto quanto uguale a sé stesso, e può capitare che ad un certo punto, su quel muro ci si stanchi di arrampicarsi. Non che la scalata non procuri certi occasionali brividi, ma può essere questa una ragione sufficiente per mantenersi videogiocatori appassionati e a lungo termine? Un po’ si, ed un po’ no. Perché vedete, in rare occasioni capita che ti piombi addosso un titolo come Dear Esther, ed è come se il muro infinito di pocanzi si rovesciasse all’improvviso, scorticandosi alla maniera di Silent Hill e mostrando un lato di sé del tutto nuovo.
Il che conduce alla domanda topica, ossia “cos’è Dear Esther“? È un viaggio surreale in soggettiva che sembra voler rispondere ad un’altra domanda, ossia “cosa ne è del nostro vivere quando si deposita nell’inconscio, in un mondo interiore che non sappiamo di avere ma che costruiamo esperienza dopo esperienza?”. Per quanto possa sembrare assurdo che un quesito del genere si insinui nell’ambito del videogioco, Dear Esther sfrutta abilmente le caratteristiche del medium e ne offre un’interpretazione affascinante tanto dal punto di vista metodologico quanto da quello del pensiero, della riflessione. L’inconscio in cui si svolge la vicenda somiglia ad un’isola del Nord Europa, deserta e punteggiata da rari segni di civilizzazione: è un luogo ove la natura domina incontrastata, ma da cui emergono simboli e frasi incisi o pitturati in modi insondabili, persino nei più profondi recessi sotterranei.

In Dear Esther è impossibile correre, saltare o impadronirsi di oggetti che attribuiscano all’utente un qualsiasi potere o abilità fattuale. C’è semplicemente da esplorare e raggiungere punti di interesse presso cui una voce fuori campo (che dovrebbe essere quella del protagonista, ma questo è solo il primo tra i tanti dati opinabili del gioco) svela i suoi pensieri, producendosi in riflessioni al limite tra il poetico ed il surreale. È piuttosto difficile rintracciare un nesso tra indizi vocali e simboli, innanzitutto perché l’ordine in cui li si incontra cambia ad ogni nuova partita, e secondariamente perché il loro legame risiede interamente nel messaggio che conclude l’avventura. Che tale messaggio costituisca il finale unico di Dear Esther è tutto fuorché un difetto. Al contrario, la brevità dell’esperienza (circa 2 ore) vi indurrà a ripeterla più volte per scoprire quali nuovi e imprevedibili indizi vi condurranno a quell’esito, comprendendo sempre meglio il puzzle narrativo approntato dagli autori.

Infine, sarebbe impossibile parlare di Dear Esther trascurando il potentissimo incentivo costituito dall’isola stessa: è un luogo la cui bellezza selvaggia abbraccia ed inquieta allo stesso tempo, abbinando la cura scenografica dei titoli Irrational ad una progettazione sonora degna dei migliori prodotti DICE (splendidi i brani atmosferici di Jessica Curry). Raramente capita di avvertire la sensazione di essere osservati dai luoghi virtuali che visitiamo, come raramente accade di imbarcarsi in un’esperienza che mette in discussione la propria sensibilità, la propria disposizione a capire che ciò che si guarda senza comprendere, in fondo, è soltanto il riflesso di sé stessi. Cupo, introspettivo e misterioso, Dear Esther si racconta in un linguaggio personalissimo che lo colloca aldilà del videogioco, del cinema o della letteratura. Chissà se thechineseroom mirava davvero a far parlare del suo prodotto in questi termini.

Ah, un’ultima cosa… Occhio ai fantasmi!